Dindi

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mercoledì 18 giugno 2014

La mia insegnante delle medie e Dante






La mia insegnante di lettere delle medie, signorina Dora Olivari, era una grandissima appassionata di Dante e questa passione l'ha trasmessa a noi, alunne di prima, facendoci studiare a memoria dei brani che ancora adesso ricordo abbastanza bene.
Dopo le poesie di Pascoli e Carducci imparate alle elementari, può sembrare strano che noi, ancora bambine, ci appassionassimo a temi così importanti. Ma la signorina Olivari era eccezionale nel leggerci i passi dell'Inferno che aveva scelto per noi. Potrei dire  che lo faceva a livello di Benigni! (Benigni, come personaggio, mi è piuttosto antipatico, ma non posso che concordare sul fatto che come lettore dantesco non ha rivali).
Il primo incontro con l'Inferno è stato con Caronte, nel terzo canto: 
Il primo incontro con l'Inferno è stato con Caronte, nel terzo canto: 
"Ed ecco verso di noi venir per nave, un vecchio, bianco per antico pelo, gridando"guai a voi, anime prave! " Era "Caron dimonio con occhi di bragia", che avevo già visto sulla Divina Commedia di casa, illustrata dal Dorè: immagini che mettevano un po' di paura....








Caronte ( in greco significa ferocia illuminata), figlio di Erebo e della Notte,  era il traghettatore dell'Ade, che portava le anime dei morti al di là dell'Acheronte, o, secondo Virgilio, al di là dello Stige. Solo i morti potevano attraversare il fiume infernale, verso un destino terribile e solo chi pagava un obolo poteva passare. Da qui l'antichissima tradizione greca di mettere una moneta sotto la lingua dei cadaveri prima della loro sepoltura.
Caronte non vuole traghettare Dante, perchè vivo: solo i morti possono andare al di là del fiume, verso la loro pena. Famosissima la frase con cui Virgilio lo mette a tacere:"vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole, e più non dimandare".





Non penso certo di fare una disquisizione su Dante....mi manca proprio TUTTO per poterlo fare, ma posso dire che, ancora adesso, leggendo il terzo canto, si prova un reverenziale timore per quel vecchio, che batte sulla schiena le anime che si attardano e che pur essendo un demonio, è strumento della volontà divina.





Il secondo personaggio dantesco che la signorina Olivari ci ha fatto incontrare è Ulisse, nel canto ventiseiesimo. Ulisse è punito insieme a Diomede, che gli fu sempre compagno negli inganni,  fra i consiglieri fraudolenti.
Dante, che non aveva mai letto l'Eneide, poichè non conosceva il greco, vorrebbe sapere che fine hanno fatto Ulisse e i suoi compagni, dopo aver lasciato Troia. Quindi Virgilio, che invece parla greco, gli rivolge questa domanda a nome di Dante. E Ulisse racconta di come, dopo aver lasciato la maga Circe, ha ripreso a vagabondare per il mondo per conoscere genti e paesi.
Ulisse, seppure peccatore, era sicuramente ammirato da Dante, perchè in questo canto, piuttosto che una critica alla sua doppiezza ingannatrice, c'è un elogio alla sua sete di conoscenza. Egli incita i propri compagni di viaggio a non farsi trattenere dagli affetti famigliari e ad andare con lui oltre le colonne d'Ercole: "fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e conoscenza". L'amore della conoscenza, non è male, ma il folle orgoglio di volerlo fare valicando i limiti messi da Dio, sì. Sembra quasi che il peccato di Ulisse non siano più la perfidia e la frode, ma l'orgoglio smisurato. E comunque non si riesce a vedere in Ulisse una figura negativa, anzi....




L'ultimo personaggio infernale che abbiamo incontrato è stato il conte Ugolino della Gherardesca, nel canto trentatreesimo, condannato fra i traditori.
Dante vorrebbe sapere come mai quest'anima sta rodendo il capo di un altro condannato, il vescovo Ruggieri e lo interroga.
"La bocca sollevò dal fiero pasto quel peccator, forbendola ai capelli del capo ch'elli avea di retro guasto, poi cominciò: tu vuoi ch'io rinnovelli disperato dolor che il cor mi preme pria ancor ch'io ne favelli".
Di tradimento in tradimento, il vescovo Ruggieri aveva alla fine fatto imprigionare nella torre, poi chiamata Della Fame, il conte Ugolino con i suoi figli e nipoti e lì li aveva lasciati morire di fame.
Il dramma di Ugolino è che egli si sente vittima e non colpevole. E vittime sono gli incolpevoli figli. 
Famosissima è la frase che conclude il suo racconto: "Poscia, più che il dolor, potè il digiuno". Frase volutamente ambigua, che può lasciar intendere come Ugolino abbia finito col diventare cannibale dei propri famigliari, oppure che l'inedia l'ha portato finalmente alla morte.






Gli studi danteschi della scuola media finiscono qui e me li ricordo molto meglio di quelli fatti poi, alle superiori, quando di personaggi ne abbiamo incontrati molti altri, anche del Purgatorio e del Paradiso. Ma nessun insegnante ha più avuto la passione della signorina Dora, che negli anni sessanta vestiva ancora il lutto per le persone care perse in tempo di guerra, che OGNI giorno andava al cimitero a trovare suo padre e suo fratello e che metteva cuore e anima nel suo lavoro di insegnante.


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